Di Mariapia De Carli

Un divorzio civile è una contraddizione di termini. Così diceva l’avvocato del film “La guerra dei Roses”, in cui si raccontava la lotta senza esclusione di colpi tra due coniugi in procinto di lasciarsi. E in guerre, piccole e grandi, si riducono ancora oggi tante separazioni: si litiga per l’assegno di mantenimento, per il tempo che i figli trascorreranno con uno o con l’altro genitore, sulle vacanze, sulle case. Sono guerre quasi sempre senza vincitori che finiscono in tribunale con accordi spesso non rispettati e persone mai in pace. Per fortuna, però, anche sul fronte legale si è cominciato a capire che nelle crisi familiari non c’è nessuna battaglia da vincere e che la vittoria consiste nel trovare soluzioni condivise, tarate sui bisogni di tutti, a cominciare da quelle dei figli. E’ secondo questa nuova prospettiva che nasce negli Stati Uniti e si sta affermando un po’ ovunque la pratica collaborativa, un approccio alternativo che offre ai coniugi la possibilità di dividersi in modo sereno, imparando ad abbassare i toni del conflitto. Ci si separa senza ricorrere al giudice ma attraverso l’operato di un legale per ogni parte, che consente a marito e moglie di scegliere le condizioni più favorevoli per una nuova vita, preservando come interesse superiore quello dei figli. Avvocati collaborativi, appunto, formati alle tecniche di negoziazione e all’empatia, collaborano con un team interdisciplinare di professionisti in campo finanziario, psicologico e comunicativo per arrivare a formalizzare un accordo che prevede soluzioni sostenibili e rispettose, anche nelle vicende più contenziose. E’ il soddisfacimento delle esigenze di ciascuna parte a spiegare l’importanza di questo nuovo modo di separarsi. Non si lavora più per formulare provvedimenti giudiziari che possono ridurre in miseria una o entrambe le parti, ma ci si impegna per individuare percorsi che consentano a ciascuno di rifarsi una vita. Non è detto che ciò che è stato considerato per anni il risultato legale più importante di una separazione risponda al bisogno concreto delle persone. Prendiamo la questione della casa: ottenere l’assegnazione della dimora per un solo coniuge, lasciando l’altro in balia delle spese di un affitto, può non essere un successo. Per esempio, per una coppia che abita in una casa in centro e ne sostiene con fatica le spese di un mutuo, sarebbe piuttosto un vantaggio vendere quell’immobile e con le quote ottenute acquistare due diversi appartamenti: significherebbe alleggerirsi del peso economico e facilitarsi l’ingresso in una vita rinnovata. A questo obiettivo punta la pratica collaborativa: la separazione non va più intesa come un dramma o una guerra ma come una rinascita. Quindi promettiamoci del bene anche dopo una separazione, per consentire un futuro sereno a noi stessi e all’altro e per continuare a restare insieme ancora come genitori. Solo così il veleno delle discordie smetterà di girare. E chissà , magari qualcuno riuscirà a ricredersi anche dell’addio.