Come ripensare il Sistema Sanitario italiano? Tra modelli organizzativi più precisi e potenziamenti tecnico-informatici, la chiave sta in primis nella Medicina del Territorio

Di: Andrea Panziera

LEGGI ANCHE: Post it – Ma cos’è questa crisi?

In Italia, la spesa sanitaria si aggira intorno al 9% del PIL, mezzo punto abbondante sotto la media continentale, il cui valore è pari al 9,6%. Questo dato colloca il nostro Paese tra il decimo e l’undicesimo posto nella graduatoria delle Nazioni europee in termini di aggregato pro capite.

Contrariamente a quanto spesso si è letto o sentito dire da questo o quel politico, la spesa sanitaria non è diminuita nel corso degli ultimi anni; in realtà, la questione è un po’ più complessa e necessita di qualche approfondimento. In termini assoluti, il suo ammontare è pari a circa 2500 euro a testa. E questa somma include tutto: quella che mette lo Stato (o i cittadini e le aziende nelle casse obbligatorie); quella sostenuta dalle famiglie in assicurazioni private; quella per prestazioni specialistiche, ovvero gli esborsi per visite ed esami in studi professionisti o strutture private; infine, quelle sostenute da connazionali presso sistemi sanitari esteri.

Sistema Sanitario: i dati tra spesa pubblica e out of pocket

Una peculiarità non di poco conto attiene al peso non trascurabile della spesa per prestazioni private – quasi 600 euro – in proporzione a quella sostenuta dal pubblico per ogni residente – poco meno di 1900 euro all’anno. Quasi un terzo. Tale ripartizione, ma non solo, marca le differenze rispetto ad altri Paesi, che in alcuni casi sono enormi.

Basti pensare che in Europa si passa dai 500 euro di spesa sanitaria pro capite della Romania agli oltre 5.200 della Svezia, con un valore più del doppio di quello italiano. Tra l’altro, il peso della spesa pubblica è maggiore proprio nei Paesi scandinavi e del Centro-Nord Europa. In Germania, Svezia, Danimarca, Paesi Bassi, ma anche in Francia, rappresentano più dell’80% del totale; in Italia, il 73,9%.

Nel nostro Paese incide più che altrove la spesa out of pocket, che ammonta al 23,5% di quella complessiva; in Francia, invece, si rimane sotto il 10%, mentre in Germania ci si ferma al 12,5%. Entrando più nel dettaglio, in Francia e Germania la spesa pubblica ammonta rispettivamente a 3.238 e 3.762 euro pro capite, contro i nostri 1.865. Quella out of pocket è di 365 e 558, a fronte di 593 nel nostro Paese.

Una spesa privata

Ciò significa che le famiglie italiane, o per mancanza di alternative – soprattutto in termini di tempo di risposta alle loro necessità – o per libera scelta, spendono più di quelle tedesche e francesi per un esame privato o per una visita specialistica al di fuori del settore pubblico. La fotografia che ci consegna questa serie di dati induce a più di una riflessione, in quanto una siffatta percentuale di ripartizione della spesa appare una caratteristica tipica degli Stati economicamente meno sviluppati.

In Grecia, ad esempio, gli esborsi diretti dei cittadini per finalità sanitarie arriva quasi al 35% del totale delle prestazioni erogate; nei Paesi dell’Est europeo, mediamente, si supera il 20%. Di contro, in tutti quelli ad alto reddito prevale ampiamente il contributo del settore pubblico.

Per quanto concerne la copertura/salute complementare fornita dalle assicurazioni private, a livello continentale la loro valenza risulta ancora piuttosto modesta. In Italia, la spesa media per questa tipologia di polizze è inferiore a 70 euro l’anno. Ad eccezione dell’Irlanda, che, unica fra le Nazioni del Vecchio Continente, presenta una filosofia dell’assistenza sanitaria simile a quella statunitense, evidenziando di conseguenza un dato medio pro capite di circa 650 euro, solo a Cipro e in Slovenia le assicurazioni rappresentano più del 10% della spesa sanitaria.

Un altro problema

Oltre all’eccessivo onere che da noi grava direttamente sul reddito delle persone, un altro problema necessita di interventi non più differibili. Il motivo risiede nello sbilancio degli investimenti dell’ultimo ventennio a favore di un sistema ospedalo-centrico, spesso privilegiando interventi a favore di strutture private con il pretesto della creazione di “centri di eccellenza”.

Mi riferisco alla esigenza di procedere al rafforzamento della cosiddetta “Medicina del Territorio”, la cui debolezza, provocata da anni di abbandono da parte di una classe politica culturalmente impreparata a valutarne la decisiva importanza nella catena assistenziale, è emersa con effetti devastanti nel corso della pandemia da Covid.

La Medicina del Territorio

Ma cosa si intende esattamente con il termine Medicina del Territorio? Sotto questa voce si ricomprendono tutte le prestazioni sanitarie di primo livello e pronto intervento che hanno finalità preventive e permettono di scongiurare l’eventualità dell’ospedalizzazione. Se questo primo anello della catena assistenziale funziona a dovere, si evita d’intasare gli ospedali per problemi banali. Non solo: si garantisce la continuità di cura per i pazienti dimessi dai nosocomi che soffrono di patologie croniche. Inoltre, la sua funzione è quella di fungere da cerniera fra il livello sanitario primario e i livelli superiori.

Insomma, se ben concepita e dotata delle risorse umane e materiali necessarie, dovrebbe rappresentare un discrimine tra un’assistenza di base, gestibile ambulatorialmente e/o presso il domicilio del paziente, e una più specialistica, in cui sono richieste strutture adeguate e maggior personale. Ma, per l’appunto, la differenza la fa il “se”.

Sistema Sanitario? Una cura… per la cura

Cosa manca, affinché questa condizionalità venga superata? Innanzitutto, va chiaramente individuato un modello organizzativo ben preciso, che preveda in pianta stabile la presenza d’infermieri negli ambulatori che si possano occupare, ad esempio, di distribuire i farmaci destinati ai malati cronici, di fare iniezioni, medicazioni e via dicendo. L’ADI – servizio di Assistenza Domiciliare – non paracadutato dalle ASL, cioè, ma in diretta connessione operativa con i medici di base.

In secondo luogo, va potenziato tutto l’apparato tecnico-informatico (ricette elettroniche e telemedicina) e notevolmente implementata la dotazione strumentale negli ambulatori. La limitatezza degli stanziamenti previsti nell’ultima legge di Bilancio per l’acquisto di strumenti di piccola diagnostica ad uso della medicina generale (ECG, ABPM, Holter, etc.) non consente di fare il salto di qualità auspicato; e, oltretutto, molte Regioni non sembrano attrezzate a raccogliere la sfida riguardo la velocizzazione delle procedure di spesa.

Sicuramente, Mario Draghi, da uomo pragmatico e problem-solver qual è, può dare impulsi importanti. Tuttavia, neppure lui possiede il dono dell’ubiquità: è la classe politica, anche e soprattutto a livello regionale/territoriale, che deve porsi la domanda sull’adeguatezza delle sue decisioni rispetto all’efficienza ed efficacia delle azioni assunte per la qualità dell’assistenza sanitaria locale a favore degli amministrati. E la risposta, al momento, è in tutta evidenza non positiva.