Un focus sul Reddito di Cittadinanza, forse il tema socio-politico-economico più caldo di questa estate molto particolare

Di: Andrea Panziera

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Finalmente abbiamo capito che, oltre a tutto il resto (santi, navigatori, poeti e, aggiungo io, sportivi piacevolmente performanti) , siamo anche un popolo di esperti esegeti. E’ bastata una breve riflessione di Mario Draghi riguardo il Reddito di Cittadinanza per scatenare tutta una ridda di commenti, interpretazioni, previsioni e letture del suo retro – pensiero.

Cos’ha detto il nostro ? Che, senza entrare nel merito di come è stato concepito e strutturato il provvedimento, l’idea che ne costituisce la scaturigine, ovverosia una forma di sostegno economico alle fasce più disagiate della popolazione è fuor di ogni dubbio condivisibile. Punto. Non ha parlato né della sua efficacia applicativa, né della necessità di una sua eventuale riforma, né dei risultati sinora ottenuti. Mi chiedo, come non condividere la sua affermazione ?

Ogni società che si rispetti ha il dovere di prestare aiuto alle famiglie o ai singoli individui che si trovano in una situazione di oggettiva difficoltà. Possiamo discutere sulle forme in cui può materializzarsi questo sostegno, ma il principio, che costituisce uno dei cardini del Contratto Sociale di ogni sistema democratico, mi sembra difficilmente contestabile. Soprattutto, sottolineo, dopo i disagi provocati o acuiti dalla pandemia.

Da uomo invero prudente ma estremamente avveduto e scaltro, il Presidente del Consiglio si è ben guardato dal tranello in cui poteva farlo cadere una questione controversa, seppur nel medio termine non più eludibile. Draghi , che dimostra ogni giorno che passa doti di politico navigato, demanda questo al pari di molti altri temi assai divisivi, al confronto “intra moenia”, ai faccia a faccia fra le diverse anime della sua ibrida maggioranza.

Ciò chiarito, compito di chi, come il sottoscritto, si occupa di problematiche economiche, è quello di fare astrazione di qualsiasi opinione preconcetta e dibattere ogni argomento esclusivamente con il supporto dei numeri ed in forza di questi esprimere un giudizio e, caso mai, un suggerimento. Come ricordavo poc’anzi, in questi giorni su quasi tutti i media sono usciti articoli a commento delle parole di Draghi ed ogni tesi era supportata da numeri, con una fonte quasi unanime: i dati INPS. Potrà sembrare strano, ma le cifre riportate non coincidevano quasi mai ed addirittura giornalisti della medesima testata o gruppo editoriale ne davano di differenti.

Non sono sicuro che “in medio stat veritas” , ma a grandi linee possiamo dire che gli individui beneficiari siano un po’ più di 3 milioni, probabilmente più di 3,5, con un coinvolgimento di circa 1,5 milioni di nuclei familiari, ognuno dei quali riceve in media 600 euro scarsi al mese. Assumendo che questi dati siano approssimati al vero, la domanda che a due anni dall’entrata in vigore della misura è ineludibile porsi risulta la seguente: i risultati ottenuti sono pari alle aspettative, o no ? A mio avviso una risposta onesta non può prescindere dalla necessità di sgombrare il campo da un equivoco di fondo, che ha accompagnato fin dalla sua genesi e tutt’ora vizia tutta la discussione il provvedimento.

I promotori del Reddito di Cittadinanza hanno “venduto” sempre l’intento di perseguire due scopi : combattere la povertà e aumentare l’occupazione. Alla base del loro ragionamento vi era un nesso capovolto, bastava far uscire dall’indigenza chi vi si trovava o vi era precipitato per riposizionarlo con chance di successo nel mondo produttivo. I navigator avrebbero assunto il ruolo di tramite operativo in questo incontro virtuoso, fra nuova manodopera rimotivata e pronta al reinserimento e le aziende in cerca di forza lavoro.

La cruda realtà ha smentito le ottimistiche aspettative, tant’è che i risultati in questa direzione sono a dir poco modesti. L’errore è stato fatto all’inizio, in termini di analisi delle caratteristiche oggettive dei probabili percettori: circa il 50% era costituito da minori o disabili, quindi soggetti poco o per nulla coinvolgibili in politiche attive per il lavoro. Di più, sarebbe bastata un’indagine meno frettolosa ed approssimative delle expertise richieste dalle imprese bisognose di personale per rendersi immediatamente conto che il mismatching era inevitabile. I correttivi introdotti in corso d’opera non hanno nella sostanza migliorato questa criticità: i Centri per l’Impiego non sono certo un modello di efficienza ed efficacia ed anche il contributo degli Enti Locali nei c.d. “lavori socialmente utili” (i PUC – progetti utili alla collettività) a favore di chi per vari motivi è ostacolato alla mobilità fuori dal territorio di residenza rimane nel novero dei proponimenti del tipo “vorrei ma non posso”.

Qualcuno obietterà che , pur in presenza di problematiche di non agevole soluzione, rimarrebbero comunque ben più di un milione di individui teoricamente “occupabili” ma anche per costoro i risultati sono quantomeno deludenti. Vero, ma anche in questo caso le aspettative “ab origine” si scontravano con il gap profondo fra la qualità della domanda e offerta di lavoro, fra i requisiti richiesti dalla stragrande maggioranza delle aziende e la scadente istruzione e preparazione degli aspiranti all’assunzione.

E’ noto che le nostre imprese, salvo rare eccezioni, investono abbastanza poco nella formazione interna e non sono disposti ad aspettare tempi di apprendimento di nuova forza lavoro che potrebbero richiedere molti mesi al prezzo di una produttività assai bassa. Per tutte queste considerazioni forse sarebbe corretto porre al centro del dibattito un semplice quesito: ha ancora senso, non soltanto da un punto di vista economico, ma per chiarezza e onestà nei confronti dei cittadini, tenere assieme nel Reddito di Cittadinanza le politiche di inclusione sociale con quelle di inserimento attivo nel mondo del lavoro? non sarebbe preferibile optare solo per le prime, magari rafforzando i controlli a livello locale in merito all’esistenza del diritto a ricevere la prestazione, evitando abusi e conseguenti torti a svantaggio di coloro che ne hanno effettivamente bisogno?

Non escludo che così facendo si risparmierebbero risorse che potrebbero tornare utili per altri scopi, al limite anche quello di garantire un reddito più dignitoso alla platea degli attuali percettori che si trovano realmente in uno stato di estrema indigenza e non sono in grado di perseguire alternative praticabili per uscirne. Alle riforme sugli ammortizzatori sociali e sul mercato del lavoro, annunciate e in gestazione, deleghiamo tutto il resto.