Non “gente”, ma “quella gente”. Persone sacrificabili, in altre parole, che dimostrano come talvolta la salute sia legata… al conto in banca

Di: Andrea Panziera

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Di norma, citare se stessi è sbagliato: può apparire sinonimo di autocelebrazione. Tuttavia, in qualche caso risulta inevitabile. Soprattutto quando certe ipotesi, avanzate con cautela nel passato, si rivelano, alla luce dei fatti successivi e dei relativi numeri, tristissime realtà.

Invito i lettori del Basso Adige a ripescare negli archivi del giornale un mio articolo di qualche mese fa, in piena prima ondata pandemica. Faccio riferimento a Le tentazioni di Malthus, che potete trovare qui. Ne cito alcuni passi.

Le tentazioni di Malthus

Malthus è “propugnatore di una società in cui va abolita qualsiasi forma di sostegno economico per i più deboli. Una società nella quale ogni singolo individuo deve essere libero, arbitro delle sue scelte e privo di assistenza pubblica e finanche di solidarietà. In questo modo, come in una sorta di estremizzazione della Legge di Natura, a prevalere sono i più forti, a soccombere i più deboli“.

E ancora: “Ho come la sensazione che in molte parti del mondo qualcuno, […] a cui un sentimento come la pietas risulta particolarmente indigesto, conosca bene la lezione maltusiana e abbia deciso di passare, in modo ovviamente non manifesto, ma operativamente quanto mai efficace, alla sua sperimentazione pratica, magari confondendo un po’ le acque con qualche estemporanea misura assistenziale. Sicuramente io sono in errore, così come può essere del tutto casuale che le fasce sociali maggiormente colpite dal Coronavirus siano quelle meno appetibili dal punto di vista economico o politico/elettorale; ciononostante, il tarlo del dubbio proprio non riesco a togliermelo dalla testa”.

L’economia prima di tutto

Ebbene, per qualche recondito motivo, negli ultimi giorni queste considerazioni sono riaffiorate nella mia mente. Hanno trovato nuovo alimento in seguito ad alcune esternazioni assai improvvide pronunciate da personaggi molto diversi fra loro, assai distanti per dimora, ruoli e “peso specifico”. Personaggi, nondimeno, che sottendono un pensiero di fondo inconfessabile, anche se in un caso è stato ritrattato alla stregua di voce dal (poco) sen fuggita.

Il comune denominatore di queste dichiarazioni è che le ragioni dell’economia devono avere il sopravvento sulla permanenza in vita di persone fragili e già avanti con gli anni. Pazienza, se a latere la dipartita prematura coinvolge anche qualcuno anagraficamente più giovane o fisicamente più in salute. Una sorta di incidente collaterale tutto sommato accettabile, perché, come direbbe un noto politico emiliano di lungo corso, la salute della ditta non conta meno di quella della gente.

A meno che, e qui rientra in gioco il nucleo più inconfessabile del pensiero e delle conclusioni malthusiane, in situazioni drammatiche come quella che stiamo vivendo, al sostantivo generico “gente” vada aggiunto un aggettivo categoriale qualificante. In altri termini, “quella gente”.

Da “gente”…

Nelle mie pulsioni ribellistiche giovanili, non consideravo il danaro un elemento valoriale determinante. E questo nonostante io abbia sempre cercato di distinguere, sulla base della sua scaturigine e del suo utilizzo, le persone che ne possedevano in quantità abbastanza significative.

Mio nonno, forte della sua saggezza contadina, quando ne parlavamo, mi metteva in guardia sulla natura semplicistica di certi giudizi. Ricordo spesso una sua frase ricorrente:

“Sappi che a noi anziani i soldi servono soprattutto per curarci, perché è vero solo in apparenza che gli ospedali sono gratis per tutti. Se puoi pagare un medico bravo e cure più care, probabilmente vivrai più a lungo”.

… a “quella gente”

Leggendo alcune notizie recentissime, mi sono tornate in mente queste parole. Contrariamente a qualche homo potens, il vecchietto ospite della RSA che ha lavorato una vita e campa con una pensione di 1000€ al mese non si potrà mai permettere una terapia anti Covid miracolosa a base di cellule monoclonali – il cui costo ammonta a un milione di euro. Né si potrà permettere il ricovero in una suite di lusso presso un ospedale privato.

Lui, come tutta “quella gente”, fa parte dei soggetti cosiddetti “sacrificabili”. Soggetti tutt’al più destinatari di qualche discorso ipocrita sulla dolorosa perdita della nostra memoria storica, pronunciato spesso da chi ha sbeffeggiato l’uso delle protezioni precauzionali più elementari, ostentando in ogni pubblica apparizione sia il rifiuto a indossare la mascherina che il rispetto di ogni misura di distanziamento.

Ma, prescindendo per un attimo da ogni considerazione etica e sociale, ci chiediamo: si pone davvero come ineludibile alternativa il dilemma “o il business o la vita”?

Sostegno e lotta: compatibilità, non contraddizione

Due noti economisti, tra l’altro miei ex colleghi di Università, rispettivamente Tito Boeri e Roberto Perotti, assieme a due importanti epidemiologi, hanno redatto un intervento a quattro mani semplice e molto bello, pubblicato qualche giorno fa sul quotidiano La Repubblica. In esso, spiegano come meglio non si potrebbe l’assoluta non contraddizione – quindi, la compatibilità – fra la necessità di sostegno del sistema economico nazionale e il dovere morale di lotta alla pandemia. Una lotta, però, per la tutela della salute di tutti, in primis dei più deboli.

Esistono strumenti ad hoc il cui utilizzo non provocherebbe quella catastrofe sui nostri Conti Pubblici che qualcuno paventa. Il principale di questi è stabilmente da mesi agli onori delle cronache: si chiama Recovery Fund.

Come correttamente argomentano Boeri e Perotti, se si impiegassero una parte degli 85 miliardi di sovvenzioni del Recovery Fund, non aumenteremmo il nostro debito pubblico. Si configurerebbe come una sorta di estensione temporanea della logica che sta alla base della creazione del Fondo Sure, quello usato da tutti gli Stati europei per pagare la Cassa Integrazione. La differenza è che lo Sure eroga solo prestiti, non contributi a titolo gratuito.

Attuabile?

A parere dei due economisti, sulla base di questo presupposto, ci sarebbero validi argomenti per chiedere alle Autorità europee di spendere una parte di queste sovvenzioni per alleviare la situazione di aziende e lavoratori in attesa di un ritorno alla normalità, anche alla luce della prossima partenza della campagna vaccinale, senza inutili forzature verso il “liberi tutti” che potrebbero provocare l’insorgere di una terza e devastante ondata di contagi.

La domanda che a questo punto appare imprescindibile, però, è un’altra. In un clima come quello attuale, caratterizzato da continui cambiamenti di strategia, da idee spesso confuse e contraddittorie, da rigurgiti nazionalistici che minano la nostra credibilità e di conseguenza il nostro potere contrattuale, la nostra classe dirigente politica ed economica sarà in grado di trovare, per una volta, una comunione di intenti che si dimostri capace di coniugare il necessario supporto al nostro tessuto produttivo con il diritto a un’assistenza sanitaria efficiente ed efficace per tutti, anziché solo per chi se la può permettere? E, prima ancora, sarà in grado di trasmettere all’Europa e al mondo intero l’immagine di un Paese meno litigioso e ondivago?

Il Recovery Fund è probabilmente l’ultima occasione per sanare tare strutturali che ci trasciniamo da anni e hanno affossato le nostre potenzialità di crescita. Visto l’andazzo, tuttavia, sarebbe già un successo riuscire a presentare in tempo utile tutti i progetti necessari a ottenere i 209 miliardi che ci hanno destinato.

Buone Feste a tutti i lettori!