Oggi, 27 gennaio, si celebra la Giornata della Memoria. Dunque, riuniamoci per commemorare le vittime della “soluzione finale della questione ebraica”

Di: Giovanni Pasquali

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Oggi si ricorda la liberazione degli Ebrei dai campi di concentramento, ad opera dei sovietici. Può considerarsi il risveglio da un incubo “a occhi aperti”. I dati comunicano un numero che oscilla tra i 5 e i 9 milioni di vittime dell’Olocausto di origine ebrea; sono tra i 15 e i 17 milioni le vittime totali, di entrambi i sessi e di tutte le età, senza riguardo per anziani e bambini.

I sopravvissuti hanno rappresentato e rappresentano tutt’ora una viva testimonianza degli orrori e delle violenze commesse a loro discapito. La violenza, però, non è solo fisica. Moltissime famiglie si sono ridotte a pochi individui, alcune completamente eliminate. Fin dall’arrivo coi treni avvenivano questi scempi, attraverso smistamenti secondo criteri avversi all’etica – e all’umanità.

La violenza fu anche di natura psicologica. Un’esemplificazione si ritrova nella separazione dai propri cari, sulla base del mero sessismo, ad esempio, appena pervenuti. L’accompagnano il timore di non rivederli più, la speranza, nel caso ci si illudesse di potere riavere un contatto, l’angoscia di perdere uno di loro durante l’interminabile soggiorno oppure la propria stessa vita.

Si annoverino poi le continue – e improvvise – selezioni per questioni di lavoro o per la conduzione di sperimentazioni. Risulta difficoltoso trovare una motivazione a queste ultime. Un’ipotesi molto plausibile sarebbe quella di portare all’esasperazione i soggetti, per condurre studi in laboratorio senza che qualche nazista potesse soffrire o rischiare ripercussioni.

La situazione in Italia

In Italia, dopo i primi rastrellamenti ad opera dell’esercito tedesco, a partire dal 30 novembre 1943, la polizia repubblicana ebbe il compito di eseguire gli arresti e le deportazioni. Questa adempié al dovere con controlli di identità e delazioni remunerate; nel mentre, i tedeschi si occuparono della gestione dei trasporti dal Campo di concentramento di Fossoli (o la Risiera di San Sabba) al campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau, luogo fisico degli eccidi.

Gli ebrei perseguitati poterono, però, contare su una diffusa omertà e sulla solidarietà non solo di singoli individui, ma anche di organizzazioni clandestine di resistenza. Un esempio è la DELASEM.

Anche settori significativi della Chiesa cattolica si mossero per lo stesso fine, dimostrandosi capaci di offrire una protezione efficace a migliaia di ricercati fino alla Liberazione oppure favorendo la loro emigrazione clandestina in Svizzera. 

Di seguito si riportano i casi di quattro superstiti italiani, i quali hanno raccontato le proprie esperienze, rappresentando la voce anche di chi non ce l’ha fatta, di chi ha perso la sua, assieme alla stessa vita, nei Lager

Liana Millu (Numero di matricola: 5384)

Liana Millu (cognome originario: Millul) nacque a Pisa nel 1914. Fu una scrittrice, un’antifascista e una partigiana italiana di origine ebraica, superstite dell’Olocausto, autrice di memorie, romanzi e racconti.

Prese parte alla Resistenza italiana entrando nel gruppo clandestino denominato “Otto” (dal nome del fondatore, il neuropsichiatra Ottorino Balduzzi). Il gruppo aveva il compito di mantenere i collegamenti tra i campi alleati, ossia tra gli inglesi, gli americani e i prigionieri inglesi provenienti dai Lager liberati.

Liana Millu (Cr. ph. Fondazione Nazionale Ferruccio Parri)

Recatasi a Venezia in missione da parte dell’organizzazione, fu arrestata per la delazione di un infiltrato. Passando per il campo di transito di Fossoli, fu deportata ad Auschwitz, poi trasferita a Ravensbrück e, da qui, al campo di Malkow, presso Stettino, per lavorare in una fabbrica di armamenti.

Fu liberata nel maggio del 1945, dopo un anno di internamento, e fece rientro in Italia nel mese di agosto. Si dedicò, fin dal suo ritorno dalla prigionia, a testimoniare l’esperienza della deportazione.

La Millu pubblicò il suo primo libro, Il fumo di Birkenau, nel 1947. L’opera racconta le vicende di sei donne, sue compagne di prigionia a Birkenau, ed è uno dei primissimi memoriali di deportati ebrei nei campi di sterminio nazisti. 

Il suo secondo libro, I ponti di Schwerin, usciì nel 1978, quindi nuovamente nel 1994 con una seconda edizione. Questo romanzo tratta della vicenda di Elmina e del suo rientro a casa dopo la prigionia. Si occupa anche delle sue esperienze di vita prima e dopo la deportazione.

Due cose mi hanno spinto a scrivere questo libro. In primo luogo, il ritorno dal Lager. Ma altrettanto importante era per me la rappresentazione di una giovane donna che aveva vissuto settanta anni fa e che aveva un solo scopo: la realizzazione di sé stessa […]. Quando ero giovane avevo un solo scopo: diventare libera e indipendente […]. Ne Il fumo di Birkenau non sono propriamente presente, ma sono, come l’ha definito Primo Levi, un ‘occhio che osserva’ (das beobachtende Auge); non sono dunque un personaggio esistente, ma solo osservante. I ponti di Schwerin è un testo che tratta della mia vita, della mia vita dopo il Lager, della mia vita come donna”.

– Liana Millu si esprime circa il carattere autobiografico del romanzo, Wikipedia


Nedo Fiano (Numero di matricola: 5405)

Nedo Fiano nacque a Firenze nel 1925. A causa delle leggi razziali del ’38, come tutti i giovani ebrei, venne cacciato dalla scuola. Dopo il suo arresto nel febbraio del 1944, seguì l’internamento nel campo di Fossoli. Il 16 maggio dello stesso anno venne deportato ad Auschwitz assieme a tutta la sua famiglia: sarà l’unico superstite.

“Quando sono arrivate le leggi del ‘38 siamo rimasti sconvolti dal comportamento dei vicini: quelli che coabitavano nello stesso palazzo, nelle strade. Abbiamo visto la gente che si girava dall’altra parte o ci guardava come se non esistessimo. Qualcosa che accade al tuo vicino di casa, della porta accanto, con cui hai diviso giorni lieti e tristi, che hai invitato a casa, con cui hai fatto una gita fuori. E da un giorno all’altro il buio più completo, il silenzio più totale”.

– Nedo Fiano, Gazzetta di Mantova

“A 18 anni sono rimasto orfano. Quest’esperienza devastante ha fatto di me un uomo diverso, un testimone per tutta la vita”.

– Nedo Fiano, “Salvi per caso. Noi, gli ultimi testimoni della Shoah”, Corriere della Sera

Nel suo tragico vissuto, la salvezza arrivò per caso. Quando giunse al campo, un ufficiale delle SS chiese se tra i prigionieri ci fosse qualcuno che conosceva il tedesco. Fiano si fece avanti. Alla domanda successiva – “Tu da dove vieni?” -, la risposta – “Firenze” – produsse quasi un miracolo. L’agente nazista cominciò a ripetere il nome della città, evocando ricordi personali e manifestando simpatia per il detenuto italiano.

Nedo Fiano (Cr. ph. InToscana)

Venuti a conoscenza che sapesse anche cantare, i capi del campo di sterminio lo invitarono più volte a intrattenerli nelle loro baracche. In queste occasioni, Fiano ebbe la possibilità di mangiare qualcosa in più del rancio riservato agli altri prigionieri. La Liberazione di Fiano avvenne nel campo di Buchenwald, dove le SS lo condussero in fuga, alla fine della guerra.

Date le condizioni di grave indigenza, i suoi cugini, unici familiari rimasti in vita perché non deportati, decisero di aiutarlo. In seguito, riprese gli studi con l’obiettivo di diventare perito tessile, per avere un diploma che gli permettesse un accesso al mondo del lavoro. Conseguito il titolo, nel 1963 decise di iscriversi all’Università Bocconi di Milano. Nonostante gli impegni familiari e lavorativi, si laureò nel 1968.

Di lì a poco, iniziò a portare la sua testimonianza in giro per l’Italia, soprattutto nelle scuole. Nel 1997 fu fra i testimoni del film-documentario Memoria presentato al Festival internazionale del cinema di Berlino. Nel 2003 pubblicò il libro A 5405. Il coraggio di vivere, nel quale raccontò la sua esperienza di deportato. Fu, inoltre, uno dei consulenti di Roberto Benigni nel film La vita è bella.

Liliana Segre (Numero di matricola: 75190)

Liliana Segre nacque nel 1930. Dopo l’intensificazione della persecuzione degli ebrei italiani, suo padre la nascose presso amici, utilizzando documenti falsi. Il 10 dicembre 1943 tentò la fuga a Lugano, in Svizzera, assieme al padre e a due cugini. Le autorità del paese, però, li respinsero. Il giorno dopo, Liliana venne arrestata a Selvetta di Viggiù, in provincia di Varese, all’età di tredici anni. Dopo sei giorni in carcere a Varese, ci fu il trasferimento a Como, quindi a San Vittore, Milano, dove fu detenuta per quaranta giorni. Nell’inverno del 1944, dovette salire su un camion che attraversava Milano per raggiungere i sotterranei della stazione Centrale e il binario 21, da dove partivano i treni per Auschwitz-Birkenau. Suo padre era con lei, ma, da quel momento, non lo rivide più.

“Imparai in fretta che lager significava morte, fame, freddo, umiliazioni, torture, esperimenti”.

– Liliana Segre, “Salvi per caso. Noi, gli ultimi testimoni della Shoah”, Corriere della Sera


Nel campo, Liliana lavorò in una fabbrica di munizioni. Un giorno, una compagna, una ragazza francese di nome Janine, si ferì gravemente a una mano. Durante la selezione, ne venne decretata la condanna a morte immediata, ma Liliana – confessa – non si voltò: 

“Avrei voluto farlo, solidarizzare con Janine. Non lo feci. È un pensiero che mi tormenta sempre”.

– Ibidem

“Era molto difficile per i miei parenti convivere con un animale ferito come ero io: una ragazzina reduce dall’inferno, dalla quale si pretendeva docilità e rassegnazione. Imparai ben presto a tenere per me i miei ricordi tragici e la mia profonda tristezza. Nessuno mi capiva, ero io che dovevo adeguarmi ad un mondo che voleva dimenticare gli eventi dolorosi appena passati, che voleva ricominciare, avido di divertimenti e spensieratezza”.

– Liliana Segre, Wikipedia
Liliana Segre (Cr. ph. Torinoggi)

Per molto tempo non volle parlare pubblicamente della sua esperienza nei campi di sterminio. Il ritorno a casa e a una vita diversa rispetto alla precedente fu tutt’altro che semplice.

Solo successivamente si impegnò, in numerose circostanze, a lasciare una vivida testimonianza della prigionia. Ad esempio, nel 1997 fu fra i testimoni del film-documentario Memoria, presentato al Festival di Berlino. Nel 2005 la sua vicenda ebbe un ripercorso con maggiori dettagli in un libro-intervista di Emanuela ZuccalàSopravvissuta ad Auschwitz. Liliana Segre fra le ultime testimoni della Shoah.

Un’altra vicenda, nel 2009, incluse la sua voce nel progetto denominato Racconti di chi è sopravvissuto.  Si tratta di una ricerca condotta per conto del Centro di documentazione ebraica contemporanea, che riporta una raccolta delle testimonianze di (quasi) tutti i sopravvissuti italiani dei campi di concentramento.

Piero Terracina (Numero di matricola: 5506)

Piero Terracina nacque a Roma nel 1928. Dieci anni più tardi, a causa dell’emanazione delle leggi razziali fasciste, fu espulso dalla scuola pubblica, proseguendo gli studi nelle scuole ebraiche fino al l’estate del ’43.

Riuscì a sfuggire al rastrellamento del 16 ottobre 1943, avvenuto in tutta Roma, ma venne arrestato l’anno successivo insieme a tutta la famiglia su segnalazione di un delatore. Dopo una breve permanenza nel campo di Fossoli, si avviò la loro deportazione.

“Ci misero in 64 in un vagone. Fu un viaggio allucinante, tutti piangevano, i lamenti dei bambini si sentivano da fuori, ma nelle stazioni nessuno poteva intervenire, sarebbe bastato uno sguardo di pietà. Le SS sorvegliavano il convoglio. Viaggiavamo nei nostri escrementi: Fossoli, Monaco di Baviera, Birkenau-Auschwitz”.

– Piero Terracina, Wikipedia

Degli otto componenti della sua famiglia, Piero Terracina sarebbe stato l’unico a fare ritorno in Italia. Il dramma si consumò il giorno stesso dell’arrivo ad Auschwitz-Birkenau.

“Arrivammo dentro il campo di concentramento, dalle fessure vedevamo le SS con i bastoni e i cani. Scendemmo, ci picchiarono, ci divisero. Formammo due file, andai alla ricerca dei miei fratelli, di mia madre, noi non capivamo, lei sì: benedì, mi abbracciò e disse ‘andate’. Non l’ho più rivista. Mio padre, intanto, andava verso la camera a gas con mio nonno. Si girava, mi guardava, salutava, alzava il braccio. Noi arrivammo alla ‘sauna’, ci spogliarono, ci tagliarono anche i capelli. E ci diedero un numero di matricola. ‘Dove sono i miei genitori?’, chiesi a un altro sventurato. E lui rispose: ‘Vedi quel fumo del camino? Sono già usciti da lì'”.

– Ibidem

“Ad Auschwitz il prigioniero non aveva nome, gli internati non erano contati come persone ma come pezzi. Ai prigionieri veniva tolta ogni dignità. Di quelli usciti dal campo vivi, pochissimi sono riusciti a sopravvivere, e a tornare ad essere persone degne di essere chiamate tali. L’efficiente macchina bellica tedesca non sprecava nulla. Anche dopo la morte tutto veniva usato e riciclato, la pelle, i capelli, dei prigionieri…”.

– Piero Terracina si esprime circa l’esistenza sofferta e la sopravvivenza nel campo, ibidem
Piero Terracina (Cr. ph. Repubblica)

“Quando siamo stati liberati, pesavo 38 chili. Io camminavo, ma erano tanti quelli che non si tenevano in piedi. Dopo un po’ crollai, dopo fui portato dai russi in un ospedale militare. In seguito, fui portato nell’ospedale di Leopoli. Lì ripresi a piangere e presi coscienza di quello che era stato perpetrato da persone normali ai nostri danni […]. Fu in Unione Sovietica che ripresi a vivere… ricordo ancora oggi la mia prima partita a pallone…”.

– Ibidem

Piero Terracina condivide la Liberazione con pochi altri italiani sopravvissuti, tra cui Primo Levi. Il ritorno alla vita risultò, però, lungo e difficile.

A partire dagli anni Ottanta, svolse un’attività di testimonianza, cosicché simili orrori non si ripetessero, svolgendo incontri in scuole, associazioni, università, conferenze, seminari di formazione, istituzioni militari, trasmissioni radiofoniche e televisive, carceri. Come Liliana Segre, nel 1997, fu uno dei testimoni del film-documentario Memoria presentato al Festival di Berlino. Due anni più tardi, anche la sua voce prese parte al progetto di raccolta Racconti di chi è sopravvissuto.

La difficoltà di ricordare

La difficoltà nel ricordare quanto accaduto non consta della banale dimenticanza, di cui si può soffrire spesso quando ciò a cui ci riferiamo è successo molto tempo prima. Questa Memoria è intrinseca in ognuno di noi e, a maggior ragione, nell’animo di chi è sopravvissuto ed è ancora in vita.

Quanto è difficile essere un sopravvissuto? Solo chi si porta ancora questo peso sulla schiena e sulla coscienza può saperlo.

Tre delle quattro persone presentate, e di cui ci si è impegnati a riportare fedelmente e inequivocabilmente l’esperienza, sono ormai decedute. Liana Millu è scomparsa il 6 febbraio 2005; Nedo Fiano il 19 dicembre 2020; Piero Terracina l’8 dicembre 2019. Tuttavia, ciò non impedisce di considerarli ancora vivi, per non dimenticare chi, come loro, ha affrontato l’inferno nazista e ne è uscito.

“Auschwitz non è solo colpa della Germania. Anche altri governi furono carnefici di questo male. Il governo francese dopo l’armistizio ha consegnato tanti ebrei ai nazisti. Eppure, in altri paesi come la Danimarca questo non è successo. Il Re si oppose alla deportazione. Si mise anche lui la stella che contrassegnava gli ebrei, fece pressioni sul popolo e questo bloccò la deportazione degli ebrei danesi. Perché questo in Italia non accadde? Anche in Bulgaria […] gli ebrei furono salvati dallo sterminio. Perché questo in Italia non accadde? Se qualcuno che poteva si fosse opposto non ci sarebbe stata nessuna deportazione. In Italia gli ebrei sono presenti da circa 2300 anni […]. Agli ebrei era vietato non solo l’avere ma anche essere”.

– Piero Terracina si esprime riguardo le responsabilità sulla Shoah, Wikipedia